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Fermo: Conoscere e conoscersi passo dopo passo, al primo incontro della rassegna “Cammini” di Spazio Betti

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di Danilo Monterubbianesi

fermo@vivere.it


A volte si va avanti, a volte indietro, in pochi raggiungono il traguardo, mentre molti, il più delle volte, si sentono come tornati al punto di partenza. È un “Gioco dell’Oca” quello che descrive Matthias Canapini e che ha vissuto sulla sua pelle in anni di viaggi per i cosiddetti “territori di frontiera”. “Gioco dell’Oca: quaderni di frontiera” è anche il titolo del suo libro-reportage, presentato presso Spazio Betti nella serata di martedì, insieme a una mostra fotografica, in occasione del primo appuntamento della rassegna “Cammini”, dedicato ai “Passi”, quindi al cammino come fatica, impegno, ma anche come atto conoscitivo e sovversivo nei confronti di confini e barriere che spesso ci portiamo dentro.

La rassegna, dal titolo volutamente al plurale, attraverso i suoi tre appuntamenti, “passi”, “soste” e “strade” – questi ultimi rispettivamente il 18 e il 25 luglio – vuole esplorare le complessità di azione e pensiero nascoste dietro il semplice atto di mettere un piede davanti all’altro, perché camminare non è mai solo questo: ci sono luoghi, persone, punti di partenza, come anche obiettivi, aspettative, paure e ambizioni ad accarezzare ogni nostro passo, ogni goccia di sudore e ogni mano che stringiamo.

Matthias, classe ’92, non si definisce giornalista, né tantomeno scrittore o fotografo, ma qualcuno che ha coltivato il “seme del viaggio” fin da piccolo, nelle numerose partenze con la sua famiglia. Poi le vacanze si sono trasformate in esplorazioni, e perché no, in militanza. “Il mio intento è stato quello di raccontare la storia, i nomi, i volti e le testimonianze al di là dei numeri e delle statistiche: volevo capire le motivazioni delle persone, cosa li spingeva a muoversi e perché”. Le strade che le sue scarpe hanno calcato negli anni quindi percorrono territori di frontiera e aree di conflitto: la Bosnia, i Balcani, l’Ucraina, il Vietnam, l’Africa Sub-Sahariana, ma anche Ventimiglia, Lampedusa e il Brennero. “Uno che ha camminato con i migranti, non che li ha solo guardati”, e che proprio in virtù di questi viaggi e delle sue esperienze si sente oggi a disagio con l’etichetta di “rifugiato” o “migrante”; “oggi faccio fatica a parlare di profughi: la popolazione mondiale è in cammino da sempre, siamo figli di gente che è stata o è tuttora in cammino”, affermazione con cui svela l’ipocrisia dell’ostracismo contro chi decide di spostarsi per cercare un futuro migliore, insieme alla narrazione di un “noi” contrapposto a un “loro” e alla retorica dell’emergenza, che ancora domina, contrapposta ai dati reali, il dibattito politico: “sudiamo tutti allo stesso modo, abbiamo fame allo stesso modo”, in cammino siamo tutti esseri umani.

“Il viaggio è una buona scuola” dice anche Matthias, “ti sottrae qualcosa, porta a fare chiarezza. All’inizio devo ammettere che ho affrontato le frontiere e le persone con cui ho camminato in senso vittimistico, perché le mie domande e le mie curiosità puntavano sempre sui soliti argomenti, come ‘perché sei partit*?” o “cosa cerchi in Europa?”; sono domande vigliacche, non chiedevo mai ‘qual è il tuo colore preferito?’, ‘che squadra tifi?”.

Ma viaggio non significa solo andare in capo al mondo: “i viaggi che mi hanno cambiato totalmente”, rivela, “lì ho fatti a casa, quando ad esempio ho esplorato il cratere dei luoghi colpiti dal sisma del 2016”. Il cammino quindi, anche se non si va lontano, è un’esperienza conoscitiva, che apre dei solchi nella nostra mente e ci permette di rivoltare alcune dinamiche viziate del nostro pensiero. Camminare, e camminare con gli altri, è un esperimento di inclusione e inclusività, come testimoniano gli operatori SAI di Fermo e Grottammare, della Cooperativa Nuova Ricerca Agenzia RES, che lo scorso ottobre hanno messo in pratica tre giorni di cammino per i Monti Sibillini. “Ho sempre camminato come operatore”, dice uno di loro, “ma è solo togliendomi da questa etichetta che poi ho compreso il vero significato di questa esperienza”. L’etichetta però viene presentata come ambivalente dai volontari: “io lo dico che ho camminato con ragazzi tossicodipendenti, rifugiati o con disabilità psichiche, ma poi l’importante è far passare il vero significato di questa esperienza, le emozioni che abbiamo provato e quello che abbiamo imparato l’uno dell’altro”. “Non ero il solo a camminare, ma eravamo tutti insieme”, dice uno dei ragazzi che ha preso parte all’avventura; “non sapevo cosa avrei incontrato – I didn’t know what i signed for – ma alla fine è stato stupendo”.










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