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Amare è fare: intervista a Marco Marchetti della Fattoria Sociale Montepacini

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di Danilo Monterubbianesi

fermo@vivere.it


Essere solidali significa stare accanto, seguire, cedere una delle nostre mani a qualcun altro per guidarlo. Ma questa condizione spesso è accompagnata da un certo senso di pena, che può far intendere la disabilità e le condizioni di svantaggio come delle porcellane da custodire morbosamente, metafora di un assistenzialismo ipertrofico che attanaglia la cultura dei servizi in questo campo. Se amare vuol dire anche lasciare liberi, assistere nel modo più sano prevede delle componenti di fiducia, di lavoro, di fare e imparare a fare, affinché lo svantaggio non provochi un’esclusione dal mondo. Abbiamo parlato con Marco Marchetti, uno dei responsabili della Fattoria Sociale Montepacini, sita in Strada Comunale Misericordia a Fermo, la quale rappresenta un modello di assistenza attiva alla disabilità, fatta a misura d’uomo.

Montepacini è molte cose: per chi non conoscesse questa realtà come la definiresti?

“Montepacini è una realtà di agricoltura sociale pubblico-privata, perché è una proprietà del Comune di Fermo di 13 ettari e due case coloniche. Da sempre ha una vocazione sociale, fin dagli anni ’80, quando era sede della Comunità Incontri, che si occupava di tossicodipendenza e dipendenze patologiche. È un luogo con una forte storia solidale, che dal 2012 ha iniziato ad ospitare attività di agricoltura sociale proprio attraverso la creazione di un Centro Estivo per ragazzi, incentrato sulla cura dell’orto, la cura degli animali, laboratori di riuso e attività ricreative. È dall’esperienza del Centro Estivo che poi abbiamo avuto l’idea di rendere Montepacini operativa tutto l’anno, con una serie di iniziative importanti atte a coinvolgere e a sostenere nel modo più efficace possibile il disagio e la disabilità. Oggi Montepacini si occupa anche della vendita diretta dei prodotti che coltiviamo, è un agriturismo – ristorante e svolgiamo moltissime attività con realtà esterne e con le scuole. Dall’8 gennaio 2014 poi si è trasferita qui la sede di un centro socio – educativo – riabilitativo, con orari dalle 9 alle 16, e che fin dall’inizio abbiamo cercato di indirizzare verso l’agricoltura sociale. In più da qualche mese nel casolare abbiamo avviato un progetto di coabitazione, o co-housing, in cui ospitiamo due ragazzi che quindi vivono e lavorano qui”.

Cos’è per te Montepacini?

“È una domanda imbarazzante, perché per me rappresenta moltissimo. Nasco come educatore, ma sono una persona molto eclettica, ho cambiato molti lavori, stancandomi spesso dell’attività che svolgevo. Ho avuto svariati incarichi pubblici, in Provincia e nel Comune di Porto Sant’Elpidio, tutto svolto per dedizione e senza logiche partitiche, ma mi sono reso contro ad un certo punto che in politica stavo smarrendo l’aspetto sociale che mi appartiene. Finché nel 2009, per caso, mi chiamarono a sostituire Giuseppe Forti alla direzione del Centro Montessori, per poi gestire questa realtà; sento di aver ritrovato me stesso. Oggi come presidente e volontario della cooperativa, non è che sono io ad aiutare gli altri, ma è questa realtà che aiuta me, soprattutto dopo l’esperienza di un grave problema di salute nel 2014, in cui ho pensato di mollare tutto. Montepacini mi ha aiutato a ritrovare il senso della solidarietà e dell’affettività, coniugando tra l’altro, la parte solidale con la sostenibilità, termine di cui oggi si abusa, ma che ho sempre sentito come esigenza. È così che l’agricoltura sociale rappresenta sia la solidarietà umana che quella ambientale

Com’è nata l’idea?

“Sin da ragazzo, giovane educatore di 21 anni, ero attratto dall’agricoltura biologica, tanto che nel 1976 costituimmo un gruppo di giovani che voleva ritornare alla terra, con l’utilizzo, in particolare, delle proprietà pubbliche in stato di abbandono, semi-abbandono o utilizzate per fini speculativi. Montepacini oggi è la realizzazione di quel sogno che sembrava lontano, e che coniuga in sé una sostenibilità, come ho già detto, che va al di là della semplice sfera ecologica, ma che coinvolge i rapporti umani. Ora il mio obiettivo qui è quello della completa apertura al quartiere, di costruire un luogo vivo e vivibile da tutti, per mettere al centro la persona”.

Quanto è importante insegnare a FARE e a FARE PER GLI ALTRI nel percorso di supporto alla disabilità?

Lo slogan che ci ha sempre caratterizzato è che la persona disabile, la persona svantaggiata, da oggetto di cura e di assistenza, può diventare soggetto che si prende cura, dell’orto, degli animali, e che esercita i propri diritti: il diritto al lavoro, all’affettività, all’indipendenza. Tutto ciò sembra in contrasto con la cultura oggi predominante, che fa prevalere in questo servizi delle logiche di tipo assistenziale. Poi operiamo sulla base di un paradigma culturale che viene vissuto come una provocazione: la gratuità. Noi 3 membri del cda operiamo gratuitamente, e anzi, investiamo nel progetto delle risorse; e come noi ci sono altri volontari, tra cui anche professionisti, che dedicano il loro tempo. Ma più che di volontariato ci piace parlare di “comunità restituente”: abbiamo avuto delle cose e restituiamo delle cose. Questo comunque non è un discorso generalizzabile, perché abbiamo anche 7 dipendenti part-time, a breve 8, e sono i giovani, che devono poter avere un’aspettativa, un futuro, e quindi un lavoro giustamente retribuito. Diamo al lavoro un ruolo centrale e ci sono tanti giovani che si sono avvicinati a noi e che continuano a lavorare con noi svolgendo le attività più varie, mentre molti altri ci accompagnano per un pezzetto del loro percorso di vita.

La nostra filosofia è che anche le persone svantaggiate, disabili, non vengono qui per rimanerci: Andrea Canevaro, un grande pedagogista, ha scritto che il compito dell’educatore è quello di rendere la propria figura superflua, poiché ciò significa che il ragazzo ha raggiunto i propri obiettivi di autonomia e indipendenza. Questo non vuol dire che l’educatore diventa inutile, ma deve saper modificare il proprio intervento sulla base dell’evoluzione di chi assiste”.

Che valore ha la fiducia all’interno di Montepacini?

“La fiducia è fondamentale e lo stiamo sperimentando attualmente con il progetto di vita indipendente. Ovviamente va valutato caso per caso, perché non tutte le situazioni di disagio sono adatte a questa esperienza. Qualcuno nel co-housing ha sollevato dei dubbi assolutamente legittimi, ma non improvvisiamo: le persone che ospitiamo e che vivono e lavorano qui, prima di tutto, hanno fatto una scelta di convivenza, poi collaboriamo attivamente con professionisti, come ad esempio Barbara Rossi, del Filo di Arianna, in modo tale da mettere al centro la persona e ciò che è meglio per lei”.










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