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Buon Natale con “La Statuina del Presepe”

15' di lettura
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di Adolfo Leoni

fermo@vivere.it


Lucrezio stava guardando i grattacieli vicino alla stazione Garibaldi. Era seduto su una comoda panchina di granito. Ammirava la doppia torre verdeggiante che svetta sui Giardini di Porta Nuova. Quella zona di Milano lo intrigava. Spesso ci veniva di notte, dopo i concerti, perché quel luogo sembrava illuminarsi di tanti minuscoli punti luce. Come fossero le lucciole della sua campagna che, quasi dimenticata, gli tornava alla mente d’improvviso.

Amava la città, Lucrezio, il movimento continuo, la frenesia, il caos, l’insonnia perenne. Ne riceveva la scossa giusta, quell’adrenalina per vivere… o, forse, solo per tirare avanti.

Era stato recentemente a Berlino, in precedenza a Parigi e a New York. Girava il mondo quando poteva, attratto dal nuovo, dal futuristico, dall’intelligenza umana.

Accanto, aveva depositata a terra la custodia del sax. Era il suo tesoro: un selmer di ultima generazione. Il suo presente e, sicuramente, il suo futuro.

Si considerava un buon musicista. A Milano aveva trovato facile lavoro. Con gli Exodus, il gruppo del momento, si era esibito a La Buca, al Bonaventura, al Masada e in tanti altri locali dove ancora si ascoltava un buon jazz, e quella musica la si amava veramente.

«Lucrezio!», che cazzo di nome. Ci pensava spesso quando stringeva nuove mani da presentazione. Lui lo accorciava in Luzo, con la zeta tirata e quasi doppia. Quando poi, richiesto dell’origine – le più curiose erano le donne -, doveva ammettere che suo padre, latinista incallito e un po’ distratto, gliel’aveva appioppato senza chiedergli neanche… il permesso. Fortuna che non avesse aggiunto anche Tito Caio. Era la sua battuta d’alleggerimento.

Luzo, dunque, anche per i compagni di scuola. Una necessità!

Quelli della quinta elementare lo avevano deriso sin dal primo momento dell’appello, quando il nome era stato pronunciato per intero. Ma che razza di nome è mai questo?

Alle Medie, anche se non da subito, era andata meglio. Non tanto per il diminutivo camuffante, quanto per la sua indubbia capacità musicale: dal flauto dolce alla tastiera sino al sax. Si restava incantati dal suo talento. E questo induceva al rispetto.

Luzo guardò l’orologio. Il Frecciarossa sarebbe partito tra venti minuti. Tre ore per tornare al suo paese, nel centro Italia, sbrogliare quell’incresciosa pratica dal notaio e riprendere il treno per raggiungere Carla, a Firenze. Carla, architetta e paesaggista.

Avevano programmato le vacanze di Natale in Madagascar. Al sole, al caldo, sotto il cielo azzurro. Due settimane lontani dall’usuale.

Tra le opzioni era emerso anche Capo Verde. Ma il Madagascar aveva prevalso. In effetti, a prevalere era stata Carla. Come spesso capitava. Lui lasciava fare. Meno rogne, alla fine dei conti.

Ora ci ripensava e sorrideva. Carla era bella: alta, capelli lunghi, ovale perfetto, occhi color cioccolato. Nessun impegno tra loro. Era la sua donna e non lo era. Un rapporto liquido, come andava di moda.

Si piacevano, si prendevano, facevano l’amore, erano compagni quando ce n’era bisogno. Poi, ognun per sé, per le sue cose, per i suoi obiettivi. Con i propri segreti.

Venendo giù in treno, Luzo guardava il paesaggio. Aveva spento cellulare e tablet. I paesi erano già addobbati: Natale tra qualche giorno. Illuminazione e aria di festa dappertutto, ma anche i primi auguri su whatsapp.

Questi gli davano proprio fastidio, e per la modalità neutra d’invio, e per il contenuto dolciastro e un poco ipocrita. A Luzo non piaceva quella ricorrenza divenuta folclore, pia leggenda, minorità sciocca, fantasia ben confezionata senza più contenuto. Gli veniva da pensare al titolo del film: Sotto il vestito, niente!

Natale? Boh!

Arrivato a Porto San Giorgio, chiamò l’unico tassista presente dinanzi alla stazione. Chiese di condurlo nell’entroterra, in quel paese dove era nato e da cui era fuggito.

Arrivato, sbrigò rapidamente le pratiche notarile: la lettura di alcuni documenti, qualche firma, un conto corrente bancario da svuotare. E via di nuovo. Voleva ripartire immediatamente, senza neppure riposarsi – e poi dove? - o mangiare giusto un panino e bere una birra.

Passò dinanzi alla sua vecchia casa. Non c’era più alcuno che l’abitasse. Imposte chiuse e polverose, e porta sbarrata.

In strada nessuno lo riconosceva. Venti anni fuori non erano passati invano.

Camminò quasi automaticamente verso la parte più alta del paese. Il palazzo era sempre lì, al centro della scena, vicino al grande teatro, con il giardino pubblico di fronte all’ingresso, e i sedili di pietra bianca poggianti su basi modellate a forma di leone. L’avevano ristrutturato. Forse per il terremoto. Era molto più bello. Più bello di un tempo.

Gli venne spontaneo di guardare in alto. Verso l’ultima finestra a sinistra, quella del secondo piano. Sembrava ci fosse una debole fiammella dietro al vetro.

Chissà se Vincenzo…

Vincenzo aveva 60 anni quando lui ne aveva appena dieci. Ora ne avrebbe avuti 80.

Chissà se Vincenzo…

Massì. Il portone di pesante quercia era aperto. Vi si infilò. Sul fondo s’apriva la porta dai vetri istoriati, che dava sul giardino… quante volte ci aveva giocato con Bianca, la proprietaria.

Fece il primo tratto di scale, coprì il secondo e il terzo così rapidamente che il cuore gli batteva come ad un esame di conservatorio.

La porticina del laboratorio era aperta.

Lo vide da lontano. Era invecchiato tanto, ed era chino su un tavolino basso. Stava modellando terracotta, aveva accanto dei minuscoli pennelli e sopra la testa, in una sorta di bancone più grande e allungato, sostava un grande presepe ancora da finire.

«Vincenzo», chiamò sottovoce Luzo.

«Vincenzo», ripeté un tantino più forte. «Sei tu?».

Il vecchio alzò la testa da quella posa quasi rannicchiata. La barba era candida e lunga, ora portava occhiali rotondi, le rughe sembravano la carta geografica della sua vita.

Indossava un grembiule verde/marrone reso gaio solo da un tripudio di macchie colorate.

«Ciao, Lucrezio, ti ho aspettato ogni Natale». Disse così, con un filo di voce stanca, alzando di poco il capo, accennando un timido sorriso.

In mano teneva una statuetta. L’ultima fatica di quei giorni.

Dodici centimetri, valutò Luzo, che aveva sempre il vezzo di ridurre ogni cosa a misura, a proporzione.

Vincenzo c’era ancora, dunque. Come vent’anni prima. Come sempre prima. Come quando Luzo andava a trovarlo dando la mano a suo padre o presentandosi da solo.

Quelle visite iniziavano ad ottobre, in vista del presepe casalingo. Si intensificavano con la fine di quel mese e gli inizi del successivo e del successivo ancora. Ogni anno, per tutti gli anni di vita in paese.

Vincenzo faceva quello di mestiere: costruiva statuine di terracotta: la lavandaia, i pastori, il gregge, gli angeli, il bue, l’asino, Giuseppe, Maria, il Bambino Gesù. Quest’ultimo lo baciava sempre prima di posarlo nella mangiatoia. Un gesto che a Luzo era rimasto impresso.

Prima realizzava le forme, poi procedeva alla cottura, quindi alla pittura, poi l’ingresso ufficiale tra i personaggi di una storia che Luzo aveva voluto invece scordare.

Si guardarono senza nulla chiedersi. Un silenzio denso, pieno di racconti parlava per loro. Vincenzo era stato il confidente, l’amico, il consigliere e il maestro del piccolo Lucrezio. Quanti dialoghi, quante domande, quante risposte. Quanta apertura alla vita. Luzo si rivedeva seduto su quel piccolo e instabile sgabello a tre gambe. Attratto, a bocca aperta. C’era stato un momento in cui aveva deciso che avrebbe fatto lo stesso mestiere: il costruttore di statuine di natale.

In passato, quel mestiere era stato un lavoro vero e proprio, che funzionava pure economicamente: la gente le chiedeva, le portava a benedire, ne conosceva i significati profondi, le postava con rispetto nel presepe.

Poi a Vincenzo era rimasta solo la passione: nessuno acquistava più quei lavori. Non se ne capiva il valore artistico, tanto meno quello religioso.

Eppure, l’anziano aveva continuato, sicuramente per passione, ma ormai anche per ingannare il tempo, o forse per fermarlo, o tornare indietro, o vivere un’altra dimensione. La sua, quella che aveva amato di più.

In quel continuare a fare, c’era sicuramente anche la bellezza e la volontà di non perdere la grande capacità dell’uso delle mani.

Vincenzo non si muoveva mai dal palazzo. Accadeva ieri, facile immaginare che accadesse ancor di più oggi.

In quell’edificio grande e silenzioso, specie in quella stanza, era come se vi si fosse rintanato, seppellito, o ne fosse stato imprigionato da una qualche sorte.

Mai saputo avesse avuto una famiglia.

Da piccolo, Luzo pensava che Vincenzo fosse come il Gobbo di Notre-Dame: sulla torre, della torre, per la torre.

Chiuso in quella specie di antro-laboratorio, negli spazi più bassi del palazzo gentilizio, continuava, non un mestiere, ma la trasmissione di un sapere quasi iniziatico.

Di presepi se ne facevano ancora, ma di plastica, erba sintetica, con scene già costruite e volti di statuine sciocche e inconsapevoli. Come d’altronde i proprietari che li acquistavano al supermercato.

Vincenzo prese lo zampognaro che stava ultimando con piccoli tocchi di pennello: lo dipingeva di rosso e marrone. A dire il vero, li prese tutti e due: lo zampognaro vecchio e quello giovane. Uno per mano.

«Tu credi che questo sia solo un suonatore casuale, anzi, solo due semplici zampognari, vero? E invece no: costoro sono la voce della vita che cerca se stessa, la propria pienezza. Di quella vita che coglie l’essenza della festa, e la tramuta in note nella sera più vertiginosa di ogni tempo. E sai perché? Perché un piccolo e povero re è entrato nel mondo per cambiarlo, cambiando noi per primi, toccandoci il cuore».

Fece una pausa, poi ripeté: «Un piccolo re, un povero re che entra in questa terra per cambiarla… per farci diversi. Per renderci felici. Io credo che tu possa sentire quelle note… quella festa. Quell’inizio di felicità. Il resto è molto meno…».

Il termine «felicità» lo calcò.

Felicità: parola grossa, parola impegnativa! Problema non più affrontato. Ma forse, sotto sotto, Luzo ne avvertiva la mancanza come da ragazzino. Ne sentiva il bisogno. Ne captava un’eco. Ancora oggi.

Rimase zitto. Preferiva ascoltare. Era un secolo che non lo faceva più. Anche quando suonava, suonava solo per sé, senza vedere, udire gli altri.

«Le loro musiche partono da cuori felici, dissetati, sono musiche che anticipano e raccontano un mondo diverso. Più umano». Furono le ultime parole di Vincenzo.

Gli porse un solo zampognaro. Non disse nient’altro. Insistette invece con il gesto della mano.

Luzo lo prese che era ancora fresco di vernice. Si macchiò di rosso le dita e il palmo.

Vincenzo s’era di nuovo rannicchiato sul suo lavoro di questo e di chissà quanti altri natali.

«Grazie!» gli mormorò Luzo, che già due grosse lacrime gli solcavano le guance.

Discese lo scalone molto lentamente. Meditando, ripensando a quelle parole.

In mano, stringeva la statuina. Ad ogni gradino si ripeteva la frase di Vincenzo: «Le loro musiche partono da cuori felici, dissetati, e augurano felicità ad ognuno». Ma dove, ma come?

Si sentiva strano, leggero: un altro. Si sentiva piccolo e grande. Il bambino di allora e l’adulto di oggi.

Poggiò la custodia del sax a terra, l’aprì. Tirò fuori il suo selmer. Mise la tracolla, lo imbracciò.

Era solo, era notte: le case illuminate, la gente a cena, la torre vestita a nuovo.

Non aveva spartiti. Non aveva leggio. Non aveva pubblico. Aveva un più di se stesso, però. Qualcosa che gli si stava sghiacciando dentro.

Dal profondo gli emerse una melodia. Antica e nuova. La tramutò in note dolci che s’alzarono favorite da un vento leggero.

Quasi una preghiera. Di un cuore toccato da un barlume di felicità.

Carla, il Madagascar, le vacanze, il Natale.

Ora tutto sembrava avere uno spessore diverso. Più saldo.

Più vero.




adolfo leoni




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