Fermo, “Correre oltre me”: i cinquant’anni della Baiocco con una nuova sfida letteraria

Le scrivo. Tra un tastino e l’altro del suo smartphone, un po’ con le dita, un po’ con la lingua, mi risponde. Così, nasce la nostra chiacchierata…
Handicappato, portatore di handicap, disabile, diversamente abile, inabile; anni addietro, “infelice”, addirittura. Esiste un appellativo in grado di ferire meno di altri?
«Lei come chiamerebbe qualcuno di cui non conosce il nome? Non la chiamerebbe forse persona? PERSONA dunque, come tutte le altre; poi, se necessario, specificare. Le etichette, a priori, fanno male. In fondo, chi non ha dei limiti, siano essi fisici, relazionali o di comportamento? Ma sia chiaro, ciò non significa che io voglia nascondere la mia condizione, sarebbe impossibile».
Essere accettata o accettarsi, cos’è stato più difficile?
«Sono due cose che vanno di pari passo. Ammetto di non essermi mai accettata; continuo a sognare un bel fisico, a desiderare di non essere guardata come un extraterrestre. Piuttosto ho imparato a convivere con me stessa, a capire che ho dei limiti, a scendere a compromessi per tirare fuori il meglio da questa condizione in cui, purtroppo e per fortuna, mi ritrovo».
Dagli altri, invece, si sente accolta?
«Abbastanza, ma non del tutto. Lo percepisco dagli sguardi e dai comportamenti: l’accoglienza completa non è stata raggiunta. Va meglio nella mia comunità, dove ormai mi conoscono tutti, e a lavoro, dove sono riuscita a farmi apprezzare e rispettare, nonostante il mio caratteraccio».
Lei prima ha parlato di fortuna. Sul serio?
«La vita è un dono, e credo di doverne fare un buon uso. Ѐ vero, da esteta quale sono, avrei preferito una scatola rossa, luccicante, con un bel fiocco dorato. Invece mi è stato dato un pacchetto “ciancicato” senza il quale, paradossalmente, non sarei stata così sensibile, non sarei riuscita a entrare in empatia con gli altri e a cogliere certe sfumature. E poi, grazie a queste mie limitazioni, con ostinazione, ho potuto inseguire i miei sogni, attaccata alla cordicella dell’aquilone».
Barriere architettoniche e barriere mentali: quali delle due la ostacolano di più?
«Le seconde: quelle che chiamo “barriere di carta” della gente. Crescendo, però, ho capito che la diversità, di qualunque genere essa sia, imbarazza e impaurisce. Obiettivo del libro è anche questo: educare gli altri che dietro tutto c’è Samuela, una donna come le altre, con dei desideri, con dei sentimenti, con delle pulsioni sessuali. E, per restare in tema di sentimenti, se c’è una cosa che trovo sconcertante è l’assunto che un disabile non possa sposarsi o che, al massimo, lo possa fare solo con un suo simile».
A viaggiare non ha mai rinunciato, nonostante tutto. Post Covid dove la ritroveremo?
«Nella Grande Mela. Ve la immaginate la Baiocco, che non sarebbe dovuta vivere per più di due ore, farsi fotografare con la Statua della Libertà alle spalle? Ma i desideri non finiscono qui: ne ho un altro, più nostrano».
Cioè?
«Le Cisterne Romane, nella mia Fermo. L’accesso per disabili c’è, eppure la via d’ingresso è pericolosissima, ripida e scivolosa. Non me la sento di mettere a repentaglio l’incolumità di chi mi presta assistenza, così non le ho mai viste. L’ho fatto presente agli amministratori, so che ci stanno lavorando, esattamente come hanno fatto per rendere accessibile la Sala del Mappamondo».
All’asilo una compagna le diede del maiale, poiché afferra le cose con la bocca. A tal proposito, nel libro, scrive: “Le maestre avrebbero dovuto fargli capire che io ero, nonostante tutto, una bambina come loro. Ma non lo fecero mai”. Posto il livello elevato di formazione raggiunto delle insegnanti, c’è qualcosa in cui si sente comunque di correggerle?
«Dunque, io ho due nipoti per i quali sono molto presente. Durante le loro recite concentro l’attenzione sui bimbi in carrozzina, sulle parti assegnate loro. Si fanno sempre due sbagli: metterli o all’angolo o in prima fila. Ѐ chiaro che lo si faccia a fin di bene, per ragioni di visuale, ma bisogna anche comprendere il disagio o l’imbarazzo che queste scelte provocano».
Torniamo a Samuela, quanto le costa dover dipendere da qualcuno nelle cose che fa?
«Davvero tanto. Ѐ un mettersi a nudo costantemente, e non mi riferisco alla sola nudità fisica. Poniamo che nel cassetto tenga una cosa che non voglio far vedere a nessuno: non riuscendo ad aprirlo da me sono costretta a farla scoprire. E io, pur nella mia espansività, tengo molto alla mia intimità: nel mio piccolo mondo faccio entrare poche persone, e solo quelle che dico io».
Invece, di sentirsi in colpa, nei riguardi dei suoi cari soprattutto, ha smesso?
«Come potrei, quando ancora oggi sento di limitarli? Inoltre, mia madre, per come si è messa in gioco nell’aiutare me, risente di molti fastidi fisici ora. Eppure, se non avesse avuto me non sarebbe stata la donna che è ora. Sarebbe stata una mamma qualunque, invece lei è una mamma speciale, che ha saputo, coi suoi modi forti, stuzzicare il mio lato orgoglioso. Insomma, una matita nelle mani di Dio, per citare Madre Teresa».
Che consigli darebbe a chi è genitore di un figlio con disabilità?
«Ѐ una persona in carne e ossa, aldilà delle mani torte, delle gambe deboli, del respiro affannato, dell’intelligenza non come quella di tutti gli altri. Quindi il consiglio è di sgridarlo se deve essere sgridato, stimolato se deve essere stimolato. Non ultimo, trasmettergli amore, coi baci, con le carezze, con la comprensione».
Lei lavora in un ente pubblico: “Lavorare, ma chi te lo fa fare? Non era più pratico percepire la pensione?” Glielo hanno mai detto?
«E come se me lo hanno detto. Me lo dico persino da sola a volta, ma dura soltanto un attimo. Appena ho vinto il concorso in Comune mi sono recata all’Inps e ho rinunciato alla mia pensione di invalidità. Da quel giorno non sono più stata un’assistita dello Stato ma una contribuente. Ѐ una libertà che non si può barattare».
Nel 2018 nacque il suo “Correre oltre me”. Che significa per lei scrivere?
«Sin da piccola riportavo le mie sensazioni in un diario, cosa che mi faceva sentire rinnovata. Quindi un ruolo catartico, di per sé. Poi è arrivato “Correre oltre me”, un libro che ho voluto fosse di tutti, senza settorializzazioni. Esso rappresenta, al contempo, un punto d’arrivo e di ripartenza. Scriverlo è stato doloroso in quanto ho dovuto ripercorrere tutte le sofferenze fisiche e psicologiche e gli eventi più traumatici, come la morte di Gianpiero».
Pensa che il suo scritto possa aver giocato un ruolo nella costruzione di una società più inclusiva?
«Sarebbe un onore. Sicuramente, dalle telefonate, messaggi e commenti che ricevo, posso dire che sta facendo del bene agli altri, così come lo ha fatto a me. Sono stati in molti ad averlo letto e a ringraziarmi, dal giovane al meno giovane, e tutto questo apprezzamento non me lo aspettavo proprio».
Dal suo profilo social sembra di capire che con i libri non è finita qui. Conferma?
«Sì. Ce la sto mettendo tutta. Lo sto scrivendo, rimane davvero pochissimo. D’altra pare i lettori del primo me lo stanno richiedendo, e io non ci penso proprio a far spegnere questo fuoco di curiosità che si è accesso».
E quando uscirà?
Io dico sempre che “Correre oltre me” è il mio figlio di carta. E, se è vero che tra un figlio e l’altro non dovrebbero intercorrere più di tre anni, considerando che il mio primo “figlio” ha due anni…».
Samuela, giovane donna, spumeggiante e vulcanica che, con addosso la sua “armatura”, affronta quotidianamente il mondo per realizzare piccoli grandi miracoli… Tanti auguri!

Questa è un'intervista pubblicata il 27-11-2020 alle 12:22 sul giornale del 28 novembre 2020 - 889 letture
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