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La chiesa di don Checco. Come la Bibbia dei Poveri


Ieri pomeriggio è morto all'ospedale di Ascoli Piceno mons. Francesco Monti, don Checco per tutti. Ha voluto che la chiesa di cui era parroco, Sant'Antonio, dinanzi allo stadio Recchioni di Fermo, rimanesse sempre aperta nel periodo del virus e della sua malattia che non c'entra col Covid maledetto.
L'ho conosciuto nel 1976. Stavo per sposarmi ed era condizione frequentare un corso pre-matrimoniale. Lo feci a Monte San Giusto. Uno degli incontri ebbe proprio don Checco come relatore. Ancora mi domando che c'entrasse e perché esordisse parlando (male) delle Crociate, del Medio Evo, degli integralisti e di altri temi che io, a quel tempo, seppur non proprio vicino alla chiesa, difendevo. Fu una litigata senza pari, che un po' scosse gli altri presenti. Sanguigno lui, sanguigno io. Infuocato lui, infuocato io. Come sempre però dalle liti più violente si passa all'amicizia più vera. Fu così. Nonostante che io prendessi la strada di Comunione e Liberazione e lui diventasse l'assistente dell'Azione cattolica. A quel tempo ci si guardava molto in cagnesco. Non noi, però. Battute tante, frecciate innumerevoli, ma al fondo simpatia e stima. Come quella volta che venne d'estate, a casa mia (mia moglie lavorava con lui), a Bolognola, con mons. Sigalini, che più tardi diverrà vescovo. Facemmo una lunghissima passeggiata sino ad una fontana meta di escursionisti. Parlammo di tutto e, strano (ma non proprio) a dirsi, ci trovammo d'accordo su quasi tutto. Poi si mangiò e poi si bevve. Tra volte ha “rischiato” di essere nominato vescovo. Ma il fuoco amico lo ha impallinato in volo.
Potrei raccontare decine di altri episodi. L'ultima volta che l'ho visto è stato a fine gennaio 2018. La chiesa di Sant'Antonio non mi piaceva. Però l'avevo rivalutata dopo i lavori che lui vi aveva fatto negli ultimi mesi e anche dopo aver saputo di quanto vi avesse contribuito in proprio. Ci incontrammo, ci abbracciamo virilmente, mi fece vedere gli spazi sottostanti e mi portò in chiesa. Uscii dicendo: «Un capolavoro!». Scrissi subito un pezzo per Il Resto del Carlino. Ed è quello che vi ripropongo, per l'amore che don Checco aveva per quella chiesa e per l'affetto che io avevo per lui. Eccolo.
«Andai a Chartres, anni fa, in camper e una guida d’eccezione: mons. Germano Liberati, docente di italiano, critico d’arte, collaboratore dell’Università di Urbino. Montegiorgio gli ha dedicato la Biblioteca comunale.
Visitammo la Cattedrale di Notre-Dame. Avevo interesse per il Labirinto, ero appassionato di alchimia, esoterismo, Cavalieri Templari (un amore che m’è rimasto). Mentre percorrevo le pietre, in basso, don Germano mi disse: «Solleva lo sguardo, guarda la Bibbia dei Poveri, il blu di Chartres, i racconti della Bibbia». Biblia pauperum. Lo feci. C’era il sole. Vetrate stupende. Una lettura tridimensionale. Uno spettacolo. Un’emozione. Ci ho ripensato giorni fa camminando perimetralmente la chiesa di Sant’Antonio di Fermo con don Checco Monti, il parroco. È un’opera d’arte: quattro pareti di vetrate, migliaia di pezzi dipinti, stile gotico moderno, chilometri di ferro. Un racconto unico. Le vetrate progettate dall’architetto Renato Cristiano, nomen omen; la struttura dell’ing. Lino Fagioli “Tenda di Dio in mezzo alle tende degli uomini”
Dovrebbero inserirla nel giro dei turisti. Dovrebbe aprire il cuore dei fedeli.
Non mi piaceva prima del restauro. Mi emoziona, ora, a pochi mesi dal compiuto intervento.
Due Santi nelle vetrate sud e nord, le loro vicende, il loro carisma. San Francesco, raccontato con il colore verde-azzurro della spiritualità. Il figlio viziato di Pietro di Bernardone che si converte dandosi interamente al Signore; gli uccelli che si chetano al suo invito, lo sguardo rivolto al cielo. Parete opposta, quella del nord, con un altro santo francescano (la chiesa fu costruita dai Minori Conventuali nel 1975), Sant’Antonio, e quel colore rosso-carnato. Sant’Antonio, l’uomo dall’azione concreta. «Quello che ispirava l’uno – dice don Checco – viene incarnato dall’altro». Quanto Francesco era «ispirato dall’amore dell’infinitamente piccolo per l’immensamente grande», tanto Sant’Antonio «rappresenta l’amore di Dio, immensamente grande, per l’infinitamente piccolo che è l’uomo».
Parete est, dove il sole batte al mattino, il giallo e l’ocra, ma anche il marrone, sono i colori della terra (si colgono anche i simboli dei tre regni della natura: minerale, vegetale, animale), della realtà che è dura. C’è l’angelo che scaccia Adamo e c’è Adamo che entra nel mondo e nella sua contraddittorietà. E c’è l’Albero della vita e della conoscenza, del buono e di quello che buono non è.
Parete Ovest, blu scuro e violetto. Cristo muore e risorge, la Vergine è assunta in cielo, la città degli uomini che diventa babelica, informe e mostruosa, e quelle mani tese a chiedere la forza di cambiare. Collego il messaggio visivo ai Crocefissi di William Congdon nella lettura che ne fa Massimo Recalcati. «L’amore cristiano non ha nulla di consolatorio, non è un rifugio illusorio… è piuttosto una forza che scuote…». Un’onda d’urto, dunque.
Esco dalla chiesa che è buio. Alzo lo sguardo verso la cuspide sormontata da una guglia in vetro istoriato che arriva a circa quaranta metri da terra. È illuminata. Ho riletto da poco un’opera di Albert Camus. Una frase mi ha colpito ed è giusta per qui: «Siate realisti, domandate l'impossibile».

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