"Discorsi nell'anima"

4' di lettura 26/07/2017 - I discorsi veri sono quelli scritti nell’anima di chi è in grado di recepirli adeguatamente, con arte dialogica, che mira alla verità, a differenza di quella retorica, che mira a persuadere.

Un mito contro l’invenzione della scrittura è narrato da Socrate nel dialogo platonico Fedro.
Il dio Theuth dona al re egizio Thamus le lettere dell’alfabeto: Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria. E il re rispose: O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti (Platone, Fedro, 368 ca. a.C.).
Il discorso scritto, prosegue Socrate, dialogando con Fedro, come un dipinto, rimane statico, sempre uguale a se stesso, interrogato non risponde, va in giro dappertutto e può cadere in mano sbagliate, offeso non può difendersi. Socrate conclude le sue argomentazioni esaltando un altro discorso: È quello che viene scritto mediante la conoscenza nell’anima di chi apprende, esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi bisogna tacere (Platone, Fedro ).
I discorsi veri sono dunque quelli scritti nell’anima di chi è in grado di recepirli adeguatamente, con arte dialogica, che mira alla verità, a differenza di quella retorica, che mira a persuadere. Nel mito Platone assegna alla scrittura un valore di mero supporto alla memoria e non di veicolo di sapienza, restando la trasmissione del vero sapere affidata all’oralità dialettica. Il discorso vivo tra maestro e discepolo, fratello di quello scritto, è in grado di ritornare sui suoi passi, di riproporsi in forme diverse, di adattarsi.
Nella storia della letteratura sono ricorrenti le considerazioni relative alla superiorità dell’oralità sulla scrittura, si pensi ad esempio a Plauto, Clemente Alessandrino ed altri. Primo Levi sente il peso della grande responsabilità morale della scrittura: … la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità e non protesta mai. Non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per avvenire un crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali. Non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male. Anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno ( Primo Levi, La chiave a stella, 1978).
La tradizione culturale tramandata attraverso il dispositivo della scrittura, principalmente con i libri, come va correttamente valutata? Quando ci accostiamo ad un testo, siamo sicuri di entrare in relazione con il suo autore, di comprendere il significato che voleva dargli? Un filosofo e logico scrive: La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con le persone più stimabili dei secoli passati, che ne sono stati gli autori, ed è anche una conversazione ben pensata in cui questi autori ci rivelano soltanto i pensieri migliori (Cartesio, Discorso sul metodo, 1637). La scrittura, che permise di riprodurre, memorizzare e trasmettere il pensiero, diffondendolo nel tempo e nello spazio, attraverso le officine di scrittura del medioevo latino, in cui copisti, miniatori e rilegatori lavorarono alacremente, per far circolare i testi, fornire le biblioteche, può ritornare dialogicità, prima ancora che le parole siano scolpite in chiare pagine. Entriamo dunque fiduciosi nelle biblioteche del mondo, immaginando un rapporto dialettico, in cui la voce e l’ascolto, in armoniosa alternanza, si fondono nel luogo e nel momento in cui il sapere tenta di formarsi, nella consapevolezza che le verità sono parziali, progressive e in continua evoluzione.


di Maria Luisa Lasca
marialuisa.lasca@libero.it







Questo è un articolo pubblicato il 26-07-2017 alle 14:57 sul giornale del 27 luglio 2017 - 2095 letture

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